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"NOTA STONATA"
Regia Moni Ovadia
Ruolo: Hans Peter Miller

Traduzione: Carlo Greco
Scene: Eleonora Scarponi
Costumi: Elisa Savi
Anno: 2020

PAC - Paneacquaculture
Nota stonata: il dolore del ricordo, il ricordo del dolore. Ovadia rilegge Caron.
GIAN LORENZO FRANZÍ | Nota stonata è lo spettacolo tratto da Didier Caron per la regia di Moni Ovadia che vede protagonisti Carlo Greco e Giuseppe Pambieri.
Il colore è il nero. Il numero è due.
Quando entra in scena il protagonista di Nota Stonata, Hans Peter Miller, la scena è vuota.
Un grande specchio al centro (che poi scopriremo avere funzioni di finestra), sullo sfondo: due porte, una a destra e una sinistra.
Due sedie, accanto al tavolo. Due bicchieri vuoti accanto ad una bottiglia.
Piccoli particolari che raccontano l’antefatto e il background di Miller: un violino fa bella mostra di sé sul tavolo, dentro la sua custodia dal tipico interno vellutato in rosso. Siamo chiaramente in un teatro, nel comodo camerino di un artista.
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La Stampa
Riconoscimento Camera di Commercio
Festival di Borgio Verezzi - Premiato "Nota stonata" con Greco e Pambieri
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Sipario
54° Edizione del FESTIVAL TEATRALE DI BORGIO VEREZZI,

Il decimo spettacolo della 54° edizione del festival teatrale di Borgio Verezzi, Nota stonata dell’attore, sceneggiatore, regista e drammaturgo francese Didier Caron, classe 1963, è una prima nazionale dopo il trionfale debutto al Teatro Michel di Parigi.
La vicenda, che vede in scena due soli attori, è ambientata a Ginevra, nella Svizzera francese, in un freddo inverno del 1991, due anni dopo la caduta del muro di Berlino. L’azione si svolge nel camerino di Hans Peter Miller, direttore da molti anni dell’orchestra di Ginevra ma in procinto di passare alla prestigiosa Filarmonica di Berlino.
Alla fine del concerto l’uomo, irritato, nervoso e inquieto per la deludente esecuzione dell’orchestra, viene importunato a più riprese da uno spettatore assillante e invadente, Léon Dinkel, il cui vero cognome è Dinkelbach, che si dichiara un fervente ammiratore del maestro. Mano a mano che il loro dialogo procede il comportamento del visitatore diventa sempre più strano e oppressivo.
Il pubblico si chiede chi sia veramente e soprattutto cosa voglia dal direttore.
Dal confronto serrato fra i due poco più che cinquantenni emergono a poco a poco i fantasmi di un torbido passato che li lega strettamente.
La regia della pièce è affidata all’attore, musicista e cantante Moni Ovadia, capace, puntando sugli elementi allusivi e trasfiguranti del copione, luci, musiche e oggetti, a stimolare lo scavo interpretativo dei due bravi interpreti. Le parti di Dinkel e Miller, che al pubblico paiono uno il potenziale carnefice e l’altro la sua vittima, sono rese bene da due attori di lunga e robusta esperienza, Giuseppe Pambieri, e Carlo Greco. La scoperta della pièce e la sua fedele traduzione si devono a quest’ultimo...

...Diretto con mano sicura da Ovadia ed interpretato con bravura dall’affiatato binomio Pambieri e Greco, il testo è sostanziato di cose e non di parole, scevro come è da toni didascalici e tribunizi, verbosità e patetismi. Dello spettacolo, vanno apprezzate la forte passione civile ed etica che lo innerva, la struttura lineare; l’impianto solido; la ricostruzione attenta dell’evento sceneggiato; l’equilibrata unione di pathos e ragione; la sobrietà e asciuttezza dei dialoghi. La rievocazione di fatti dolorosi è inserita da Caron senza melensaggini nel dettato teatrale, facendosi carne e spirito.



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Corriere dello spettacolo

“Il teatro deve poter proseguire”, ci dice Moni Ovadia in Piazzetta Sant’Agostino al 54° Festival di Borgio Verezzi (Savona), nell’attesa del debutto nazionale di “Nota stonata” di Didier Caron, di cui è regista. Sul palco, tra poco, a calcare le scene ci saranno Giuseppe Pambieri e Carlo Greco (sua anche la traduzione del testo)....
....Alla sua uscita di scena con un “mio padre avrebbe preferito così”, c’è appena il tempo per un mesto sorriso.
Perché il pianto di Greco ci incolla alla sedia, davvero bravo, lui che poco prima ci aveva conquistato già con una risata d’isteria, alla scoperta della pistola scarica con la quale doveva togliersi la vita, dato che l’ebreo lo aveva convinto ormai che “tutti” sapessero già “tutto”: la sua famiglia, i componenti della sua orchestra, il primo violino di cui non era minimamente soddisfatto per la prestazione in concerto (e che teme lo guardi con sufficienza, come troppi, come se sapessero…), e chi lo voleva a Berlino. Quasi buffo: per una nota stonata, al freddo, svestito, affamato, con la dissenteria, il padre ebreo deportato era stato assassinato. Un rischio che corre oggi il musicista/assassino: con la finestra aperta, visto che fuori nevica ed è appena uscito dalla doccia, sbaglia anche lui. La paura lo attanaglia da quando le carte in tavola si sono scoperte, ma fino all’ultimo continua a negare, poi ammette ma vuole ugualmente salvarsi la vita, con le mille spiegazioni che già conosciamo: se non lo facevo io sarebbe stato un altro!, era un ordine!, non potevo deludere mio padre! Eppure, ci racconta che rivive ogni giorno quegli spari maledetti come se questa sofferenza sia un prezzo sufficiente per mantenere onore, fama e reputazione immacolata, sotto un cognome usurpato.


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"LA SIGNORA DELLE CAMELIE"
Regia Matteo Tarasco
Ruolo: Monsier Duval padre
Anno: 2017/2019 - in tourne in Italia



Il Sud on line
LA RECENSIONE. Bargilli, l’elegante e convincente “Signora delle Camelie”
27 DIC 2018

Per vivere con gli agi però ci vogliono i soldi e la Gautier, donna dignitosa, innamorata, altera e dallo spirito libero(praticamente una femminista ante litteram),non vuole farsi mantenere quindi comincia a vendere ed ad impegnarsi tutti i suoi gioielli per pagare le spese ed i debiti, quando Armando lo viene a sapere decide, in segreto, di farle dono della propria rendita provocando l’intervento di suo padre(un ottimo Carlo Greco), il quale prima affronta lui e poi, non riuscendo a convincerlo, parla con Margherita chiedendole il sacrificio di lasciarlo per sempre, quest’atto di generosità, provocherà in lei, già molto malata, la morte.
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La Platea - Rivista culturale teatrale
La signora delle camelie, un incanto spezzato
Costanza Carla Iannacone
01 MAR 2018

Da apprezzare invece resta il lavoro del regista che ha saputo ricreare e mantenere la poesia dell’amore infelice tra Margherita e Armando, dei dialoghi che sanno far riflettere, e l’interpretazione di Carlo Greco, l’unico che ha saputo dare uno slancio allo spettacolo.
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La Stampa - Spettacoli
Suggestioni e allusioni ne “La Signora delle Camelie” di Tarasco all’Erba
Osvaldo Guerrieri

Protagonista è Marianella Bargilli. Al suo fianco Ruben Rigillo, che dà le giuste carature al personaggio di Armando, Silvia Siravo e Carlo Greco
Carlo Greco impegnato autorevolmente nel ruolo del Padre. Degli applausi si è detto e sono così frequenti da perderne il conto.
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"TCHAIKOVSKY"
Scritto e diretto da Harris Freedman
www.teatro.persinsala.it

"Nel nuovissimo e interessante Teatro Millelire, nel quartiere Prati, risuona l’eterno canto del cigno.

Presentato in forma di lettura scenica al Tristan Bates di Londra, Tchaikovsky debutta in prima mondiale al Teatro Millelire di Roma.

La penna di Harris W. Freedman ha incontrato Pyotr Ilych Tchaikovsky e ha disegnato il profilo della sua anima.

Un testo equilibrato. Nel senso che per ogni felice soluzione rappresentativa, corrisponde una perplessità. A cominciare dal protagonista. Carlo Greco è un attore di spessore nel panorama italiano e sulla scena incarna in maniera assai credibile il personaggio: il suo aspetto resta legato alle sembianze di Tchaikovsky nella memoria degli spettatori...

...Addirittura spalanca le braccia, flette i polsi, piega le ginocchia e prende a saltellare come una ninfa nei boschi. Spesso i movimenti sulla scena sono una vera e propria danza, gabella dovuta all’autore che ha raggiunto l’apice nella composizione musicale per il balletto classico. "

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"LA TERRA SENZA" di Anna Vinci :
Prodotto da "Fondazione Teatro Politeama" di Catanzaro e interpretato da Carlo Greco, Gianna Paola Scaffidi, Massimo Avella e Anita Pititto, per la regia di Ivan Stefanutti. La storia di una fuga e del ritorno a casa in una terra, la Calabria, bella e suggestiva quanto inospitale e, a volte, crudele.



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"LA MANDRAGOLA" al Quirino di Roma
Mario Scaccia esalta un memorabile Fra’ Timoteo

La Mandragola, in scena al Teatro Quirino di Roma, resta uno dei vertici del teatro italiano. Solo i capolavori di Goldoni hanno lo stesso livello d’invenzione drammaturgica. Machiavelli considera la commedia non come una trascrizione di Plauto e Terenzio, ma come una rappresentazione della realtà dei personaggi e non dei tipi della tradizione classica. Egli guarda i suoi personaggi senza alcun moralismo e prende atto delle loro azioni con la lucidità dell’inventore di un mondo di vittime e di complici, di beffati e di beffatori. Di qui nasce la verità umana del seduttore Callimaco, venuto da Parigi a conquistare l’irreprensibile Lucrezia, ma anche di quest’ultima, la quale alla fine scopre che la virtù rischiava di sottrarla alla vita. Nicia, il marito di Lucrezia, è un cocu ambiguo perché dà l’impressione perfino di una connivenza con Callimaco e con lo scaltro servo Ligurio. E che dire, poi, della complicità di Sostrata, madre di Lucrezia, e soprattutto di Fra’ Timoteo, che conosce come pochi le debolezze umane? La regia di Mario Scaccia è fedelissima allo spirito del testo e il suo Fra’ Timoteo è memorabile per forza e insieme sottigliezza. Edoardo Sala è un sanguigno e vivacissimo Ligurio, Carlo Greco un solido Nicia, Rosario Coppolino un languido Callimaco, Claudia Carlone una fascinosa Lucrezia, Anna Cianca una gustosa Sostrata. Completano assai bene il cast Massimo Di Vincenzo e Antonella Piccolo.

(Giovanni Antonucci – Il Giornale (pagina spettacoli nazionale) – martedì 1 febbraio 2005)

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Forza Andreotti, corra a vedere quella Mandragola che Lei censurò Bentornata, Mandragola: si riaffaccia dunque, alle nostre ribalte (oggi ultimo giorno al Quirino di Roma), la gran commedia cinquecentesca di Niccolò Machiavelli, dalla vita travagliata attraverso i secoli, frequente oggetto di censure, fino a quella che ne bloccò le rappresentazioni nel nostro dopoguerra, dando luogo a una battaglia per la libertà di espressione culminante nell’allestimento della Compagnia degli Spettatori Italiani a cura di Marcello Pagliero e Luciano Lucignani. Tra gli interpreti di quello spettacolo era Mario Scaccia che, una ventina di anni fa, avrebbe riproposto il testo machiavelliano con la propria regia. Una edizione assai simile è questa cui oggi assistiamo, e nella quale il Nostro assume di nuovo la parte di Fra’ Timoteo, centrale nella vicenda; orditore, costui, con il laico Ligurio, già sensale di matrimoni, della trama che porterà il giovane Callimaco, sedicente depositario di scienze mediche, addottrinato in Parigi, nel letto della bella Lucrezia, moglie dello stolido Messer Nicia, ricco borghese fiorentino. Scritta quasi per gioco, La Mandragola risultò poi un capolavoro, pur se, da principio, agli occhi di pochi: fra di essi il giovanissimo Carlo Goldoni, che la lesse e rilesse più volte, come attesta nelle Memorie, traendone forse impulso per l’avvio della sua splendida vocazione di autore. La spregiudicata malizia di Fra’ Timoteo poté motivare,in epoche diverse, la fama di anticlericalismo che accompagnò l’opera; ma a suscitare scandalo fu in ultima analisi la materia erotica che attraverso cinque atti si forma e si sviluppa. Sarebbe interessante sapere, in proposito, l’opinione del Senatore Giulio Andreotti, che, sottosegretario con poteri ministeriali in un postbellico governo democristiano, oppose il suo veto alla messinscena dello scottante lavoro, così come di altri titoli teatrali e cinematografici di vario peso. Sapendolo uomo di spirito gli consiglieremmo comunque di recarsi nella sala romana dove La Mandragola si darà fino al 6 febbraio.
Un posto di favore si troverà di sicuro per lui. Per il poco che possa contare il parere del vostro cronista, gentili lettori, la visione e l’ascolto dell’attuale impresa drammatica, fregiata della beneaugurate insegna di Compagnia Molière, sono altamente raccomandabili. Scaccia ha scelto bene e guida con solidale accortezza gli attori nei differenti ruoli: Edoardo Sala, suo compagno in più avventure teatrali, è un Ligurio assai appropriato, l’inedito, per noi, Carlo Greco espone con esatta misura la compunta dabbenaggine di Messer Nicia, Rosario Coppolino disegna a dovere la collaudata figura dello spasimante Callimaco, Massimo Di Vincenzo offre sobrio spicco alla presenza laterale del servo Siro. Di riguardo il trio femminile composto di Claudia Carlone, sensibile Lucrezia, di Anna Cianca, disinvolta Sostrata (l’esperta madre di Lucrezia) di Antonella Piccolo, l’anonima penitente che contribuisce a svelare le doppiezze di Fra’ Timoteo. Terzetto muliebre che, identificato in altrettante ninfe, pronuncia i versi della canzone iniziale. Scenografia (Augusto Sciacca) e costumi (Antonia Petrocelli) si ispirano chiaramente alla pittura rinascimentale. E all’arte di quella gloriosa stagione sembrano richiamarsi le musiche a firma di Federico Bonetti Amendola, che avvolgono gli intermezzi versificati. Di ottimo auspicio per le repliche le calorose accoglienze del folto pubblico della “prima”.

( Aggeo Savioli – L’Unità (pagina spettacoli nazionale) – domenica 6 febbraio 2005)

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Utopia e castigo di Machiavelli

E’ probabile che l’amarezza espressa da Niccolò Machiavelli nella “Mandragola” sia accentuata dall’esilio (è lo stesso periodo, situabile fra il 1510 e il 1520, in cui egli scrisse “Il Principe”). La “più bella commedia italiana in assoluto”, come la definisce Mario Scaccia, ora in scena come interprete e regista, reca i segni di illusioni ferite. Proprio tale dialettica di utopia e castigo (sotto forma di colpi inferti dalla realtà), genera mostri sotto forma di dantoniana “verità, acre verità”, la stessa posta da Stendhal in apertura al “Rosso e nero”, guarda caso romanzo esposto ai due poteri, quello dello Stato e quello della Chiesa (rappresentati, rispettivamente, dai due colori). Tuttavia al grande fiorentino manca – e per molti secoli ancora – la Rivoluzione Francese che – sotto diversi aspetti – segna la fine della spregiudicatezza, almeno a livello di princìpi se non di Prìncipi. In realtà, la sofisticata apparecchiatura intellettuale di Machiavelli appare oggi primitiva, nella sua “ingenua” denuncia del male: è proprio perché l’homo homini lupus è non soltanto vero, ma ovvio, che esso non convince di più di un illibato idealismo delle “magnifiche sorti e progressive”. Tale premessa ci pare necessaria per intendere a pieno il significato della “Mandragola”, la cui filosofia poco ha a che vedere con la scioltezza delle sue qualità teatrali, nonché la felicità nella costruzione dei personaggi. Ulteriore riprova ne è l’allestimento dello stesso Scaccia (al Teatro Quirino – Vittorio Gassman, fino ad oggi), che riserva per se la parte di fra’ Timoteo, l’uomo di Chiesa sempre pronto a tendere il palmo in questua d’elemosina. Finalmente vediamo Scaccia in un teatro a sua dimensione come il Quirino, pronto a raccogliere ogni accenno del suo modo particolarissimo di recitare. Perché se è vero che niente di affettato rimane in questo grande maestro, è pur vero che certi effetti non sono registrabili come semplice naturalezza: è tutto ciò che fa con perizia che diventa semplice e naturale, come – nello specifico – certi anticipi, o meglio, in termini musicali, certi “sincopati” in lui inconfondibili.
Buona prova in genere, di tutta la compagnia, salutata da caldissimi applausi, in cui spiccano Carlo Greco (Messer Nicia) e Claudia Carlone (Lucrezia) anche per la sua avvenenza.

(Luca Archibugi – Corriere della Sera – domenica 6 febbraio 2005)